L’anno scorso, è rimbalzato in rete uno studio condotto dagli psicologi Amanda Vicary e Chris Fraley dal titolo Captured by True Crime: Why Are Women Drawn to Tales of Rape, Murder, and Serial Killers?. In esso, emergeva con chiarezza il dato che a fruire dei prodotti true crime – storie vere di crimini, siano esse in forma di libro, podcast, documentario, serie televisiva – sono soprattutto le donne. E con una maggioranza schiacciante. L’intento della ricerca, e di buona parte degli articoli che le sono stati dedicati, era cercare di comprendere il perché di questa fascinazione. Perché le donne si sentono attratte, nell’intrattenimento, da storie che le ritraggono spesso come vittime?
Da donna e discreta appassionata di true crime, mi sono posta anch’io questa domanda. Spesso. A voler essere precisi, è il quesito che mi attraversa la mente ogni volta che, dopo aver guardato una puntata di quei programmi abbastanza scadenti di ricostruzione di crimini sul circuito Discovery – avete presente, no? Uno di quelli dove il racconto del poliziotto in pensione, rigorosamente in voice-over, accompagna immagini di repertorio di brughiere in bianco e nero e nastri gialli della scientifica intorno al perimetro di imponenti case coloniali –, insoddisfatta, ricorro soprappensiero a internet, alla ricerca di particolari nascosti e dettagli macabri supportati da fatti, carte, perizie. Ecco, quando mi ridesto dal raptus di curiosità, mi ritrovo sempre a fare i conti con una sensazione di malessere difficile da descrivere, una specie di nausea febbrile, un adrenalinico disgusto. E mi domando: perché? Perché queste storie parlano a me e a milioni di altre persone? Milioni di altre donne?
Mentre facevo ricerca per scrivere questo pezzo, mi sono resa conto di una cosa: buona parte dei commenti allo studio sul true crime e buona parte dei prodotti true crime stessi partono sempre con una valutazione personale di chi scrive o narra. La presentazione dei fatti passa sempre attraverso la lente del primo lettore, del primo interprete della vicenda: lo scrittore, il podcaster, l’equipe di giornalisti che esegue le interviste ai poliziotti in pensione nei documentari Discovery, ma non solo. Negli articoli che ho consultato, il tema viene introdotto attraverso l’esperienza personale di chi scrive, attraverso il suo rapporto con le storie di crimini. L’ho appena fatto anch’io. Potrebbe trattarsi di un riflesso automatico scaturito dalla volontà di giustificare l’interesse per la materia. Eppure, sono convinta che dietro questa personalizzazione ci sia almeno un altro motivo: la spettacolarizzazione di crimini brutali ci coinvolge. Ci coinvolge al punto che le storie di crimini diventano anche storia di chi li racconta per la prima, la seconda, la millesima volta.
Mentre ascoltavo il podcast La città dei vivi (sull’omicidio Varani), ricordo di essere rimasta molto colpita da una frase dello scrittore e speaker Nicola Lagioia che aveva quasi il sapore di una confessione. Proprio all’inizio del primo episodio, dice: Così, a un certo punto, mi capitò di accendere la tv sul telegiornale e mi ricordo che arretrai. In un appartamento del quartiere Collatino, poco distante da casa mia, era successa una cosa difficile persino da descrivere. […] Torture, colpi di martello, le notizie erano confuse. Ma io sentii immediatamente, cioè: ebbi paura, che lì dentro ci fosse qualcosa che mi riguardava. Indagare il male diventa un modo per indagare l’umano, anche e soprattutto quando quello che potremmo scoprire di noi stessi e del mondo ci spaventa.
In un suo saggio intitolato Pouvoirs de l’horreur, la filosofa e critica letteraria Julia Kristeva si sofferma sulla particolare categoria dell’abietto in letteratura, partendo da autori e opere come Dostoevkji e il suo Delitto e Castigo. Si considera abiezione tutto ciò che causa una perdita di senso: quel senso che costituisce lo scarto fra soggetto e oggetto, sé e altro. Il primo e più immediato contatto con l’abietto è quello che si prova al cospetto di un cadavere: corpo senza vita che ci ricorda della nostra caducità. Resistendo alla nostra percezione del mondo soggettivo con la sua disarmante materialità reale, alla quale è impossibile sfuggire, l’abiezione insinua la possibilità che la nostra maniera di attribuire senso alle cose sia parziale, arbitraria, sbagliata. A volte, il dubbio che le cose non ce l’abbiano proprio, un senso, squarcia la barriera del nostro io con la lama affilata della disgustosa abiezione. Soprattutto nelle società occidentali, costruite su un modello umano asettico e funzionale alla produzione, l’abietto viene sistematicamente espulso dal quotidiano, per abitare (progressivamente) sempre più l’immaginario. Per Kristeva, il compito della letteratura deve essere, allora, indagare questo spazio dell’abiezione: il margine tra senso e perdita di senso, tra individuo e nulla.
Pur occupandosi di fatti realmente avvenuti, anzi forse proprio per questo, il genere true crime può dirsi a pieno titolo un’indagine dell’abietto che ci abita. È forse per questo, dunque, che i prodotti di intrattenimento basati su veri crimini si interrogano spesso proprio sulla ricerca di un senso: un aggrapparsi disperato al confine tra sano e folle, normalità e mostruosità.
Con lo studio di Vicary e Fraley, entra in gioco ancora un altro elemento. Da quanto è emerso, il maggior coinvolgimento di un pubblico femminile dipenderebbe da una più elevata percezione del pericolo: le donne si sentono più esposte a un determinato tipo di violenze, pertanto se ne interessano maggiormente rispetto agli uomini. Questa ipotesi viene arricchita, nella ricerca, dal dato che le storie true crime contenenti degli indizi o suggerimenti pratici su come accorgersi del pericolo o come provare a mettersi in salvo avrebbero, apparentemente, più presa sulle lettrici (ascoltatrici, spettatrici) potenziali. La fascinazione per le storie di cronaca nera avrebbe, insomma, anche radici pedagogiche.
Viene citato il caso limite di una donna americana, Sheila Bellush, la quale, temendo ritorsioni violente dell’ex marito dopo la finalizzazione del divorzio, pregò la sorella di mettersi in contatto con una delle autrici di best seller true crime più apprezzate sulla piazza, nel caso in cui (o non appena) le fosse successo qualcosa. Sheila venne uccisa da un mercenario assoldato dall’ex. E la scrittrice Ann Rule ne ha raccontato la storia. Integrare un simile aneddoto ai dati dello studio lascia intendere che la narrazione della violenza può divenire anche il modo per resisterle. Allo stesso tempo, tuttavia, questa lettura quasi pedagogica delle storie di crimine non può che risultare problematica: la narrazione della vulnerabilità e della penetrabilità del corpo femminile è talmente diffusa, radicata nella nostra cultura, da dare per scontato che, prima o poi, una donna sia vittima di un’aggressione violenta a suo danno.
Lo studio ribadisce spesso che le statistiche di crimini violenti coinvolgono, in numero, più gli uomini che le donne. Nonostante questo, le donne hanno paura. Una paura che ci cova dentro sin da bambine, che cresce sottopelle insieme a noi, a ogni avvertimento di non vestirti, non parlare, non guardare, non giocare, non rispondere in un modo che possa attirare l’attenzione di anonimi malintenzionati o indispettire padri, mariti, compagni. Che si espande ogni volta che le nostre parole, il nostro dolore, la nostra capacità di intendere e di volere, la nostra volontà di reagire vengono sottoposti a strenuo scrutinio quando denunciamo una violenza. Nell’ottica di questa paura va letta la vicenda di Milena Quaglini, raccontata nel libro Milena Q. – Assassina di uomini violenti di Elisa Giobbi, in libreria dal 14 febbraio.
È stata dipinta come una delle pochissime serial killer italiane, apostrofata dai giornali con epiteti sensazionalistici come vedova nera o angelo vendicatore. In entrambi i casi, l’accento viene posto sulla fredda e calcolatrice lucidità di una donna che seduce e poi ammazza le proprie vittime. Niente di più lontano dalla realtà. Milena è stata anzitutto e soprattutto vittima: di suo padre, del marito, degli uomini che ha incrociato sulla sua strada. La sua metamorfosi in assassina, il disorientamento che genera la sua occupazione di un ruolo narrativamente riservato agli uomini violenti, rendono ancor più evidente quella marcescenza che la nostra società cerca di nascondere normalizzandola. Milena e i suoi crimini sono prodotto del nostro sistema. Con questo non si intende giustificare le sue azioni. Piuttosto, se accettiamo il true crime come luogo di indagine del male che ci riguarda, possiamo pensare alla storia di Milena come al rovesciamento narrativo dell’idea di serial killer, di vittima e carnefice.
Forse appropriarsi dello spazio narrativo in cui solitamente si viene raccontate come vittime serve a esorcizzare la paura di diventarlo. Serve a esporre la cultura dello stupro in tutta la sua brutalità, a ricordarci che questo è uno dei volti della società che abitiamo, in cui passiamo da oggetto del desiderio a corpi abietti da reprimere (nella nostra capacità di esistere, sanguinare, occupare spazio, resistere alla narrazione patriarcale) alla fulminea rapidità di uno schiaffo.
2 commenti su “True crime: l’attrazione per la violenza è solo paura”
La violenza riguarda tutti. Prima o poi ci passa accanto. Leggere, indagare non ha fascino alcuno ma esorcizza la paura di quello che non possiamo prevedere o controllare. C’è una parte oscura in tutti noi e non tutti siamo in grado di controllarla. Quando si manifesta, prevale sull’autocontrollo e qualcuno diventa carnefice, sceglie una vittima e sfoga la sua negatività.
Gentile Angela,
concordo, in parte, con quanto scrive. Tuttavia, sono fermamente convinta che fascino e paura condividano uno stretto legame. Grazie per aver condiviso la sua opinione.